La rete violenta. Un nostro pensiero sulla vicenda di Silvia Romano

Nelle scorse settimane abbiamo assistito a uno scenario in cui “se non si può attaccare il ragionamento, si attacca il ragionatore” (P.Valéry). Fiumi di intolleranza e ‘facili’ discorsi d’odio contro la giovane Silvia Romano stanno inondando un intero apparato mediatico, dai canali mainstream alla fitta rete dei social network, alimentando un fuoco pericoloso già vivo che ormai, da tempo, brucia sulla pelle dei più vulnerabili.  

Non è un caso, infatti, che sotto attacco ritroviamo ancora il valore della solidarietà tra i popoli, insieme alle categorie sociali più bersagliate, quali i credenti musulmani, le persone migranti e rifugiate, le stesse che, dai risultati del quarto monitoraggio sulle rimozioni dei discorsi d’odio online in Europa (2018), riconducono ai motivi di incitamento all’odio predominanti: xenofobia (17,0%) e orientamento religioso (13,0%). 

Come scrive Amnesty Italia, Silvia rappresenta l’insieme di queste categorie in quanto donna, convertita all’Islam e impegnata in attività di volontariato in Kenia e, per questo, facile bersaglio di un ordine di parole che parte da stereotipi e luoghi comuni per poi cedere il passo a discorsi discriminatori e d’incitamento all’intolleranza verso la naturale diversità identitaria (https://www.amnesty.it/silvia-romano-e-lodio-online-che-toglie-voce-alle-donne/).

Nei confronti di Silvia Romano abbiamo assistito a una violenza verbale senza precedenti: niente di simile a quanto accaduto appena un mese e mezzo prima con Luca Tacchetto, rapito in Burkina Faso e per 15 mesi in mano jihadista. L’essere donna resta una delle ragioni all’origine degli attacchi di odio online, a cui in questo caso si somma la “questione della conversione”.

Constatiamo tutti i giorni come la dimensione virtuale di tali discorsi contribuisca fortemente a costruire e diffondere immaginari distorti e criminalizzanti, immaginari imbrattati di informazioni stereotipiche e generalizzazioni mirate a sollecitare l’emotività delle persone e ad oscurare qualsiasi forma di argomentazione basata su fatti e dati, ancor più se proposti da personaggi di rilievo pubblico che con un solo “clic” giocano ad alzare i muri della paura dell’altro, gli stessi che a fatica moltissime realtà territoriali cercano di abbattere nel duro lavoro quotidiano.

Per Esempio fa parte di quel mondo che crede nel volontariato e nella cooperazione, locale e transnazionale, come opportunità di crescita individuale e collettiva. Il nostro lavoro nel campo della mobilità per l’apprendimento, non solo in Europa, ma anche nei cosiddetti Paesi terzi, ci ha dato l’opportunità di conoscere il senso più profondo della parola “cooperazione”, un’espressione che trova fondamento nel pieno riconoscimento delle parti coinvolte, nella costruzione di legami di fiducia e nello sviluppo di buone pratiche. 

Ricordiamo la preziosa esperienza di un progetto di mobilità formativa sul contrasto alla dispersione scolastica che Per Esempio sta avendo l’opportunità di coordinare e che lo scorso giugno 2019 ha visto la partecipazione di un membro dello staff a una visita di studio nella città di Kisumu, in Kenia. L’essere sul campo e ragionare dentro margini di prevedibilità ha creato le condizioni affinché giovani operatori sociali potessero mettersi in gioco con il proprio bagaglio di consapevolezza e prontezza, risorse e paure, facendo spazio alla possibilità di conoscere, decostruire e costruire nuovi ordini di discorso.

Da diversi anni ci impegniamo affinché gli strumenti per combattere azioni ed espressioni di odio possano davvero essere alla portata di tutte le persone nel proprio quotidiano. Questo è un percorso che fa i conti con la mancanza di fiducia – già nei giovani – verso la possibilità di determinare il cambiamento, dentro e fuori di sé, spesso riflesso di ferite provocate da dinamiche di abbandono vissute su più fronti.

Richiamiamo le istituzioni alla responsabilità di garantire le pari opportunità e tutelare i diritti umani, quale dimensione cui partecipa la lotta contro l’hate speech (discorsi d’odio), una lotta che richiama l’importantissima conquista della libertà di espressione che oggi, nonostante sia un vanto per le costituzioni nazionali d’Europa, risulta essere sempre meno libera e sempre più strumentalizzata. 

L’esperienza di Silvia, cui rivolgiamo la nostra solidarietà e vicinanza, ci fa riflettere sul fatto che una delle prime risorse a nostra disposizione per non cedere ai discorsi d’odio è quella dell’empatia e dell’immedesimazione, di cui la giovane ha goduto ben poco dalla platea dei social network. 

Ciò rafforza in noi la consapevolezza che contrastare l’hate speech sia possibile e necessario, ma i soli strumenti giuridico-legislativi non bastano, specie quando questi non trovano piena applicazione da parte dei governi. Si pensi ai dati sui crimini d’odio in Italia che parlano ancora di n.726 reati per razzismo e xenofobia nel 2019 (Oscad) in un Paese dove la Legge Mancino 205/1993 condanna atti di violenza o provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Ma dal discorso all’atto di violenza il passo è breve, soprattutto in un clima carico di incertezza e di paura.

Per questo, ancora una volta, sosteniamo con forza l’esigenza di ripartire dai territori in un’ottica di prevenzione e di comunità, garantendo l’accesso a percorsi educativi virtuosi lungo tutto l’arco di vita, percorsi che siano inclusivi e partecipativi, capaci di favorire la crescita personale e lo sviluppo delle competenze dialogiche e interculturali, al di là di ogni “logica di progetto”.